… intorno al caso, alle sue storie e alla sua prevedibile
imprevedibilità.
“… casus eventusque rerum, qui plerumque fortuiti sunt, sed
ratio etiam causaeque noscantur…” non spaventiamoci di fronte al latino, arriva
subito la traduzione. Si tratta di un famoso passo delle Storie di Cornelio Tacito (Historiae,
I. 4) che recita così: “… affinché si conoscano gli eventi casuali che sono del
tutto fortuiti, ma anche le ragioni e le cause…”
Questo sarebbe il compito
dello storico. Ma poiché tutti sanno che “la storia NON è maestra di vita”
allora bisogna cercare di esplorare altre pieghe della nostra cultura: perché
caso e fortuna, sorte e catastrofi da sempre hanno intrigato filosofi e
scienziati, ma anche scrittori e indovini. Non per nulla gli oroscopi, come la
Smorfia Napoletana, anche se non hanno alcun fondamento di scientificità né di
certezza, sono seguiti da milioni di individui di ogni estrazione sociale.
Poiché la storia è fatta di parole, prima ancora di esplorare
la fortuna e il caso, sino ad arrivare alle teorie matematiche che cercano di
scoprirne i meccanismi occulti, che è poi l’argomento delle storie (vere)
narrate in questo fumetto, ecco che una esplorazione sull’origine dei termini
che in questi oscuri ambiti si incontreranno può essere di qualche utilità.
La chance, inglese
e francese, deriva attraverso il francese medievale dal latino cadentia che, come del resto il casus hanno a che fare con il “cadere” e
con l’accadere. La Fortuna, nel pantheon dei Romani era la dea della buona
sorte che come la sua consorella greca Tyche, garantiva la prosperità e il
benessere. Anche nel caso di Tyche l’etimologia la faceva derivare dal verbo tunkano che significa “accadere”: era la
figlia di Teti e di Oceano e il suo diretto legame con l’elemento primordiale
con l’acqua la legava indissolubilmente al principio vitale. Questa divinità
era approdata in Italia sin dai tempi più remoti e a Preneste, come ad Anzio,
le era dedicato un tempio molto conosciuto per una sede oracolare. Nella sua
iconografia la Fortuna portava una cornucopia ricca di frutti, segno di
abbondanza, e reggeva un timone come segno del suo controllo del destino.
Spesso era rappresentata in piedi su una sfera a dimostrare l’instabilità e la
incertezza della sorte. Questo modello continuò ad essere vivo anche in tempi
più recenti.
L’Alciato, autore di una ricca iconologia barocca, ci pone di
fronte alla Fortuna che si accompagna ad Ermete, o Mercurio. L’Emblema XCIX intitolato Ars naturam adiuvans (la tecnica che
aiuta la natura) pone la Fortuna in bilico su una sfera, mentre Ermes, il
protettore delle arti e dei mestieri, siede saldamente su un cubo: Così
recitano i versi latini (ma qui se ne riporta solo la traduzione):
“Come la Fortuna danza sulla sfera,
così Ermete siede su un cubo: questo governa le tecniche), e quella i diversi
eventi della sorte. La tecnica è fatta per contrastare la forza della fortuna:
ma alle arti, quando c’è la cattiva sorte, spesso bisogna ricorrere. O gioventù
diligente, impara le buone arti, che di certo si accompagnano ai vantaggi di
una buona ventura.”
Sempre Andrea Alciato, nel suo famoso trattato Emblemata pubblicato ad Augusta in
Germania nel 1531, presenta un’immagine raffigurante tre fanciulle che giocano
ai dadi. Sotto l’incisione si legge la frase: “le sfortune sono sempre dietro
l’angolo” e sembra proprio anticipate la famosa Legge di Murphy che dice che
“se una cosa deve andare storta andrà storta”. A ulteriore commento di questa
scena, in cui i veri protagonisti sono i tre dadi, si legge un breve apologo tratto
dalla Anthologia graeca (9.158): “Un
tempo tre ragazze coetanee giocavano ai dadi per scoprire chi per prima tra di
loro sarebbe passata a miglior vita. Una volta gettati i dadi quella che dalla
sorte dei dadi era stata designata rideva disprezzando il destino a lei
vaticinato. Ma essa improvvisamente morì per il crollo del tetto e così pagò la
sua insolenza. Nelle sventure la mala sorte non può essere evitata, ma anche
nelle situazioni più favorevoli né le preghiere né le azioni hanno effetto.”
I dadi da sempre, anche quando ancora non erano cubi ma
semplici astragali, si sono legati a una vastissima mitologia di destini Intorno
ai dadi si sviluppa tutta una mitologia di destini fortunati e nefasti. “Tu
ritieni che Dio giochi a dadi…”, scriveva Albert Einstein al suo amico Niels Bohr
in una lettera del 4 dicembre 1926, dimostrando il suo tormento nell’accettare
il paradosso del caso in un mondo che si vorrebbe retto da regole matematiche e
concludeva che “Dio non gioca ai dadi con l’Universo. Dio è ingegnoso, ma non
disonesto”, e in queste parole si rileva il profondo dilemma tra Caso e necessità, che è il titolo del
famoso saggio pubblicato nel 1970 dal Premio Nobel 1965 per la Medicina,
Jacques Monod. Ma rimanendo ancora per qualche istante nel mondo classico
ritorniamo ai versi del poeta greco Agazia, ritrovati nella Antologia palatina che prese il nome
dalla Biblioteca Palatina di Heidelberg dove ne fu trovato il manoscritto:
“Gioco e non altro è questo: nei
colpi di dadi che privi / son di ragione, mostra fa di sé la Fortuna, / e della
vita qui l’imago vedrai malsicura / or trionfando ed ora precipitando al basso.
/ E nella vita e nel gioco dei dadi quell’uomo lodiamo / che sa tener misura
nella gioia e nel cruccio.” (Ant. Pal. IX, 768, trad. di Ettore Romagnoli)
Altre parole però nel corso dei tempi si sono legate alla
fortuna e alla buona (o cattiva) sorte. La parola tedesca Glück (e non Glucke che
vuol dire “chioccia”) e quella inglese luck,
entrambe per indicare la buona sorte e la felicità, hanno origini nelle
primitive lingue germaniche che risalgono al 15° secolo. Diversa sarebbe la
storia del termine hazard, da cui il
nostro gioco d’azzardo. Hasard è nel
14° secolo in Francia un gioco di dadi. Sembra che la parola derivi dall’arabo al-zahr, che significa appunto “dado”,
arrivata in Francia attraverso la Spagna. Mentre il termine random, così caro ai matematici che
l’hanno fatta diventare persino una funzione RND per la generazione di numeri
casuali (di essi farò cenno più avanti) ha anch’esso origini medievali: giunse
in Inghilterra dal francese medievale randon
che stava a significare una corsa impetuosa e disordinata, come la fuga da un
campo di battaglia.
A questo punto forse varrebbe la pena di aprire una parentesi
sulla parola “rischio” di cui tanto si parla di fronte alle catastrofi naturali
(e umane) dove la cattiva sorte spesso viene evocata a giustificazione di reali
responsabilità. Gli antichi Romani, nella loro pragmatica saggezza, affermavano
che il rischio era definibile dall’insieme di tre concetti: alea, periculum e discrimen. Anche se sono parole latine penso che il loro
significato sia facilmente comprensibile. Il primo determina appunto
l’aleatorietà del caso, il secondo ne definisce gli effetti nefasti, ma proprio
il terzo, il discrimen, pone nel
rischio l’intenzionalità di chi ne è responsabile, proprio come accade anche
per chi giocando ai dadi ha la libertà di scegliere la posta. E il rischio come
il caso sono i protagonisti negli eventi cruciali della storia. Ce lo insegnano
i grandi politici e i grandi strateghi e il famoso trattato L’arte della guerra di Sun Zu afferma
che “i successi dei Maestri dell’Arte della guerra non dipendono dalla
fortuna”. Questa massima ci riporta in un mondo lontano dalla nostra cultura
“occidentale” dove la dualità dello yin e dello yang è alla base
dell’equilibrio del mondo. Affermava Lao Tzu nel Tao Te Ching che “La fortuna si origina dalla sfortuna, / la
sfortuna si nasconde nella fortuna. / Chi ne conosce il culmine? / Quei che non
corregge. / La correzione si converte in falsità, / il bene si converte in
presagio di sventura…” (LVIII – Adattarsi alle vicissitudini) e qui sarebbe
lungo addentrarci nel Libro dei mutamenti
I-Ching dove la tecnica divinatoria fondata sui famosi trigrammi, che
ispirarono a Gottfried Leibniz l’algebra binaria, se pur fondata sulla casualità
resta pur sempre in perfetto equilibrio tra yin e yang, tra positivo e
negativo. Proprio intorno a questi concetti si articolano antiche e moderne
teorie del caso e della fortuna, non sempre governate dal “rigore della
scienza”.
Il libro di Joostens Paschier intitolato Iustii Pascasii De Alea libri duo, pubblicato ad Amsterdam nel 1642 che illustrava giochi e teorie sul gioco dei dadi fu un grandissimo successo. Ma nella storia della matematica sarà l’opera postuma dello svizzero Jakob Bernoulli, l’Ars Conjectandi del 1713, a fondare la moderna teoria delle probabilità che cento anni dopo troverà un’altra pietra miliare nell’Essai Philosophique sur les Probabilités del conte Pierre Simon de Laplace. La sempre maggiore fiducia nei risultati forniti dalle “scienze esatte” aprirà così la strada al positivismo deterministico e a una smisurata fiducia nel poter prevedere il futuro.
Scriveva Laplace «Possiamo considerare lo stato attuale dell'universo come l'effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che ad un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un'unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell'universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi».
Scriveva Laplace «Possiamo considerare lo stato attuale dell'universo come l'effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che ad un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un'unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell'universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi».
Ma intanto si continuava a
scommettere sulla fortuna perché una teoria che regoli i giochi del caso ancora
non è nata in quanto sappiamo che “basta il battito d’ali di una farfalla a
scatenare un uragano”: ce lo insegna la teoria del caos.
Se i dadi sono stati la prima macchina del caso, con la
meccanizzazione della vita civile, conseguenza della prima e della seconda
rivoluzione industriale, anche la tecnologia ha voluto la sua e nella seconda
metà dell’Ottocento non mancano brevetti di strani dispositivi per il lancio
dei dadi in modo da renderne automatica la funzione. A questo punti incomincia
la storia di Charles Fey nato il 2 febbraio 1862 in Baviera. Emigrato prima in
Francia e poi a Londra fece il suo apprendistato presso un costruttore di
strumenti nautici. A ventitré anni si trasferì in America dove nel 1885 trovò
lavoro in California alla Electric Works: erano gli anni in cui nascevano le
slot machine e nuove innovazioni le rendevano più seducenti. La "Horseshoe
Slot Machine" del 1893 inventata da Gustav Friedrich Wilhelm Schultze fu
la prima ad avere un sistema automatico di inserimento delle monetine. Due anni
dopo Fey ne modificò l’ultima versione rendendola la macchina più popolare del
momento. Fu l’occasione per Fey e per il suo socio Theodore Holtz di mettersi
in proprio. La ‘Liberty Bell’, una slot machine che richiamava il Policy
Lottery Game, fu il primo grande successo della neonata Slot Machine Factory.
La storia delle case da gioco, e soprattutto della nascita della fama di Las
Vegas come la conosciamo oggi, è ben nota e il cinema non la dimentica.
Ma
anche l’arte che nella sua immediatezza (ossia non ha bisogno di traduzioni)
non solo diventa rappresentazione fedele (e quindi deterministica) del reale,
ma spesso sconfina nell’informale dove ordine e caos si confondono. “il senso
della eterna dialettica fra ordine e case lo mette bene in scena Jackson
Pollockn – scrive Paolo Legrenzi nel suo
saggo Regole e caso (Bologna : il Mulino,
2017) – Quegli spruzzi di colore sono caduti casualmente o sono intenzionali e
cogliono esprimere qualcosa? […] Ma alla fine il puzzle si compone e ciò che è
accaduto si rivela sempre anche destino.”
Le vicende di Gwyneth Paltrow nel film Sliding Doors ci ricordano ancora che basta un nulla per cambiare
il corso degli eventi e il recente saggio Lampi
(Torino : Einaudi, 2011) del fisico Albert-Làszlò Barabàsi ci aiuta a capire il
comportamento umano cercando di rispondere alla domanda se sia possibile
prevedere il futuro, sempre imprevedibile. Barabàsi afferma che «esiste una
differenza fondamentale tra ciò che facciamo e quanto siamo prevedibili».
Quando si considerano le azioni, come le distanze percorse nei viaggi
quotidiani o il numero di email inviate, è normale che vi siano casi anomali,
ma quando si considera la prevedibilità delle azioni ciò significa che «le
implacabili leggi della statistica» ci ricordano che - come nel caso dei dadi -
i casi anomali sono proibiti. E così possiamo con certezza affermare che un Casinò
non potrà mai perdere.
A questo punto incomincia la storia che Philippe Charlier e
Richard Guérinau ci raccontano nel loro “fumetto”. Una storia che ci prende per
mano nelle avventure matematiche delle teorie (e qui volutamente uso il
plurale) della probabilità.
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